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La Miniera

di Roberto Melchiori

La miniera s’infossa nella valle
oltre la curva, sotto la scarpata,
la sento, sai, più che vederla, ora,
in mezzo ai rovi, ai caschi di viburno.

Da qui vicino si nasconde al nostro
girovagare intorno a questi colli.
Miniera povera, misera lignite,
anni di guerra, fuochi come fame
e il braccio tolto a un uomo alto,
io lo ricordo, Ercole storpiato.

Ma anche lo sbucare dalla forra
di un berretto calcato sopra un viso
da fauno, da selvatico bambino,
più o meno la mia et‡, io stavo sopra
e guardavo dipingere mio padre
orizzonti incombenti sopra il bosco.

Gli rivolgemmo la parola insieme,
non credo rispondesse, ci guardava
stupefatto dall’orlo della siepe.

Si avvicinò, toccò i colori,
fissò la tela incredulo, col dito
chiese qualcosa più che con la voce.

Mio padre gli spiegò, recuperando
un dialetto d’infanzia sconosciuto
a me, ma non al fauno rivelato,
sbucato dalla valle, ma più ancora
da un altro tempo, da un’antica
grotta di ombre familiari e arcane.

E poi sparì, correndo a piedi scalzi
(o così almeno nel ricordo vedo)
ombra fra ombre sotto i faggi,
un riso in fuga tra le grandi volte,
di castagni e di querce sprofondanti.

Ho capito con gli anni che veniva
da un cascinale poco sotto,
disabitato a rivederlo dopo
non molto tempo e divenuto adesso
un resort di successo recintato.

Ma a me è rimasto un dio silvano
da queste parti, ombra mormorante,
ammiccante presenza che accompagna
quasi sempre i miei passi qui nel folto.

Mi riscuoto e supero la curva,
abbandono la valle silenziosa
cambio orizzonte, verso l’abitato.

E mi sento vicino una presenza,
come di voce, ma anche di figura,
dietro le spalle, sussurrante e mite.
E la vecchia miniera giù nel fondo
ritornata antro, varco, oscuro tempio
mi sembra bocca di una lingua antica,
oracolo fiorito nel sentore
di un’estate ormai calda,
di una vita più viva, di un più svelto
correre della mente e delle vene,
con l’eco di un pulsare d’altra forza.

E scendo dentro ad un mio pozzo d’ombra.