C’è un capolavoro teatrale di Yasmina Reza dal titolo “Art” che affronta in modo ineguagliabile il tema di cosa sia o non sia Arte. Marc, uno dei tre personaggi mostra con orgoglio a Serge, un amico che è venuto a fargli visita, un’opera d’arte contemporanea appena acquistata. Una vera occasione a suo dire, tanto che il gallerista la voleva tenere per sé, ma poi su sua forte insistenza, riluttante, aveva comunque deciso di vendergliela. L’opera è un monocromo bianco, nel quale si intravvedono due piccole tracce trasversali, anch’esse bianche. Serge è perplesso, non si esprime, ma quando viene a conoscere la cifra iperbolica pagata per l’opera, cambia letteralmente umore fino ad arrabbiarsi per la stupidità dell’acquisto. Ne nasce una velenosa e comica discussione su cosa sia o non sia arte.
Già, vi siete mai chiesti cosa sia o non sia Arte nella contemporaneità? No, tranquilli, questo articolo non ve lo spiegherà proprio, soprattutto perché chi lo sta scrivendo non sa cosa sia l’Arte!
L’unica cosa certa che posso affermare è che manca una definizione convincente, e soprattutto manca una sua perimetrazione, non se ne conoscono i confini.
Se pensate che i maggiori artisti del ‘900 vi vengano in aiuto vi sbagliate.
Bruce Nauman: ‘Il punto in cui il linguaggio comincia a non funzionare più come utile strumento di comunicazione è anche quello in cui intervengono la poesia e l’arte’.
Andy Warhol: ‘Non penso nulla sul fare arte, semplicemente la faccio. Lascio a ciascuno decidere se è buona o cattiva, se la ama o la odia. Mentre loro stanno decidendo, ne faccio dell’altra.’
Marcel Broodthaers: ‘Finalmente, verso i 40 anni, ebbi l’idea di inventare qualcosa attraversò la mia mente e mi misi al lavoro immediatamente. Dopo tre mesi mostrai quello che avevo prodotto a Philippe Edouard Toussaint, il proprietario della Galerie St Laurent. ‘Ma questa è arte!’ disse ‘Voglio esporre questi lavori’ ‘Va bene’ replicai ‘Se vendi qualcosa ti tieni il 30%’. Sembra che queste non siano le usuali condizioni, alcune gallerie si tengono il 75%. ‘Perché?’, mi chiese. ‘Perché sono solo oggetti’, risposi.’
Hans Ulrich Obrist, uno dei più importanti critici e curatori di mostre di arte contemporanea al mondo, oltre che autore di molti saggi sull’argomento, nel definire l’arte contemporanea afferma che: ‘La migliore definizione di arte è ciò che amplia la definizione stessa’.
A questo punto è legittimo chiedersi quando e come è iniziato ad espandersi questo universo creativo, quando ha abbattuto i muri della fortezza in cui era al sicuro, ridefinendosi continuamente? Quando la Pittura ha perso la sua posizione secolarmente privilegiata? Non che ora debba essere considerata ‘storicamente’ antiquata e quindi superata, ma certamente oggi è messa alla pari di altri media, come: fotografia, cinema, televisione, architettura, grafica digitale, oggetti prodotti dall’industria, ecc.
Vediamo come è avvenuto questo cambiamento citando qualche data fondamentale.
Nel 1913 Marcel Duchamps cominciò ad utilizzare i Ready Mady, vale a dire gli oggetti già prodotti industrialmente. Nelle sue opere questi venivano assemblati con altri oggetti oppure spostati dal luogo dove svolgevano la loro funzione alla galleria d’arte. Tutto ciò determinava da una parte un ampliamento esplosivo delle possibilità espressive degli artisti dall’altra apriva una profonda riflessione sulla natura stessa dell’arte.
Nel 1968 Lewrance Weiner formulò la sua ‘Declaration of Intent’ in tre punti: 1. L’artista può realizzare l’opera. 2. L’opera può essere realizzata da altri. 3. L’opera può non essere realizzata. Ogni scelta ha lo stesso valore ed è coerente con la decisione dell’artista.
Nel 1969 Joseph Kosuth in ‘Art after philosophy’ teorizza che l’attività dell’artista può essere pensata come un’investigazione intorno alla natura dell’arte, senza che vi sia un’opera reale.
Nel 2001, Lev Manovich in ‘The Language of New Media’, osserva che i Nuovi Media di fatto si basano sempre più sul computer e sulle tecnologie digitali: “I New Media sono rivoluzionari più di ogni altro medium che li ha preceduti, perché la rivoluzione dei media computerizzati investe tutte le fasi della comunicazione ( acquisizione, manipolazione, archiviazione e distribuzione) e anche tutti i tipi di media (testi, immagini statiche e in movimento, suono e costruzione spaziale).”
Parto dalla definizione di Manovich, per introdurre un approfondimento sull’Arte Digitale e sull’Arte realizzata con gli strumenti dell’Intelligenza Artificiale (AI Art), perché è di queste che mi occupo prevalentemente.
La definizione di Arte Digitale è semplice, dal momento che con essa si comprende qualsiasi lavoro che utilizza il computer, quindi uno strumento che elabora informazioni codificate, come una risorsa fondamentale del processo creativo.
Formulata così è una definizione troppo generica, che non dice praticamente nulla. Sarebbe come dire che la Pittura si fa con i colori.
Possiamo però descrivere come si presenta oggi l’Arte Digitale e sottolineare il suo muoversi oltre i confini precedenti.
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Le opere sono caratterizzate da immagini in movimento, si tratta quindi di video o proiezioni basate su algoritmi che continuano a rilasciare immagini sempre diverse (si parla di algoritmi generativi). Questi video vengono spesso proiettati su grandi edifici superando il confine della galleria o del museo.
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Il pubblico viene sollecitato ad interagire con l’opera e talvolta viene immerso in un’ambientazione digitale, che viene a modificarsi proprio in relazione ai movimenti dello spettatore. Penso per esempio a ciò che succede al Mori Building Digital Art Museum di Tokio costruito dal Team Lab, nel quale un’opera senza confini (Borderless è appunto il titolo) immerge lo spettatore in successive fantastiche ambientazioni che richiamano alla natura, alla multisensorialità, ad un idea dell’opera che non ha confini.
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Poiché il codice creativo è del tutto immateriale le opere possono essere: riproducibili, trasmissibili, condivisibili, inseribili nel web, sui social, ecc.. Tutta questa facilità di riproduzione e la trasmissibilità non ha certo favorito l’arte digitale da un punto di vista commerciale. La tecnologia Blockchain (la tecnologia del Bitcoin per capirci) e più precisamente gli NFT (Non Fungible Token) permettono ora di registrare l’opera e di definirne l’unicità oltre che di tracciarne i passaggi di proprietà. Il confine della distribuzione è annullato e democraticizzato (mmm … avrei molto da ridire sull’uso di questo aggettivo, ma andiamo avanti).
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I social media possono trasformarsi in una dimensione parallela nella quale sviluppare la propria creatività. Grazie ad appositi apparati sempre più potenti e meno costosi, lo spettatore si può immergere in una dimensione totalmente virtuale della realtà o in una dimensione che mescola la realtà con la virtualità, si parla di realtà estesa (XR).
In un prossimo futuro, anche grazie al 5G, al cloud, all’IoT, agli NFT, all’AI e a tante altre tecnologie, avremo il Metaverso (o WEB 3.0 o Spatial Web), un luogo virtuale nel quale l’utente creativo potrà connettersi con altri creativi, scambiando esperienze, incorporando contenuti, in sostanza potrà entrare in una dimensione parallela, una specie di social media 3D in tempo reale. Oggi l’ambiente che più si avvicina al Metaverso è quello proposto dall’industria dei giochi, ma importanti attori culturali, come la Serpentine Gallery di Londra, vedono nella prospettiva del Metaverso una evoluzione della infrastruttura per la cultura digitale del 21 secolo, in particolare per superare il rapporto gerarchico White Cube – Spettatore. Altro confine che viene così a dissolversi.
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La scultura può essere robotizzata. Si può procedere alla rimozione del materiale superfluo attraverso robot multiasse. Per contro abbiamo la fabbricazione additiva, stampa 3D o 4D. Ma possono esistere anche sculture totalmente virtuali, o perché create da algoritmi generativi o perché realizzate come copie di sculture reali usando la fotogrammetria. In questo caso si può passare all’ologramma con una certa facilità.
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Poi c’è quella che io ritengo essere la caratteristica più importante. Nella costruzione di un’opera d’arte digitale concorrono diverse discipline artistiche, come musica, danza, poesia, ecc., ma anche discipline scientifico tecnologiche, come robotica, elettronica, scienza dei dati, biologia, neurologia, matematica, fisica, ecc.
Proprio partendo da quest’ultima caratteristica, gli artisti e i curatori hanno provato a definire delle sottocategorie per meglio inquadrare le specificità delle opere digitali.
Queste definizioni o etichette o tag danno l’idea del variegato panorama di proposte: Digital performances, Digital Poetry, Robotics art, Additive art, Database art, Data art, Generative art & Algorithmic art, Bio art, GIF art, Glitch art, Net art, Post internet art, Digital Animation, Digital painting, Game art, Still Image art, Digital artivism, Hacking art, Infographic Art, ecc. L’opera si fa ibrida e può diventare anche ricerca scientifica, come è avvenuto per Florence Experiment un progetto di Karsten Holler e Stefano Mancuso presebtato a Palazzo Strozzi nel quale venivano misurati i traumi delle piantine.
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C’è un ultimo punto che sta caratterizzando l’arte così come la scienza, la tecnologia, l’organizzazione sociale, la produzione, ecc. di questo inizio secolo, ed è l’Arte realizzata con gli strumenti dell’intelligenza artificiale.
L’AI Art è l’ultima frontiera dell’arte digitale. Nell’Ai Art il processo creativo viene totalmente rivoluzionato. Se prima l’artista era impegnato a scrivere un codice software dettagliato che definiva le regole per ottenere il risultato estetico desiderato, oppure interveniva a creare e modificare l’immagine, 2D o 3D attraverso gli strumenti resi disponibili da piattaforme software molto sofisticate (pensiamo a Photoshop, Unreal Engine, Unity, Houdiny, DAZ 3D …), ebbene con l’AI Art tutto questo non è più valido. Vediamo in che modo l’artista procede: Gli algoritmi di tipo GAN (Generative Adversarial Nework) si aspettano di essere addestrati attraverso la lettura di molte immagini. In questo modo essi “apprendono” e solo dopo questo processo di addestramento l’algoritmo GAN sarà in grado di generare nuove immagini, che comunque resteranno nell’ambito dell’estetica appresa. In concreto all’artista spetterà il compito di alimentare l’algoritmo con grandi quantità di immagini (ci sono molti dataset disponibili) e di scegliere, fra la grande massa di quelle che l’algoritmo genera, quelle che più rispondono alla metafora che intende proporre. Ultimamente però, e sto parlando proprio delle ultime settimane, le cose sono cambiate.
Sono apparsi dei potentissimi programmi riassumibili dell’espressione text-to-image. I più famosi sono
DALL·E 2 e GLIDE di Open AI, Imagen e Parti di Google, Make-a-scene di Meta, ma ci sono anche applicazioni di aziende “minori” che funzionano benissimo, come Midjourney, Craiyon o DALL-E 2 mini,
Stability.ai, Stable-Diffusion, Stable Diffusion GRisk GUI 0.1 e probabilmente ce ne saranno altre che non conosco.
Queste applicazioni pongono un netto cambio di paradigma per quanto riguarda la creatività. In pratica l’artista dialoga con la macchina proponendo un “prompt”, che è qualcosa di più di una semplice didascalia, molto spesso include anche specifiche tecniche che generalmente ritroviamo nell’ambito della fotografia, come l’ottica, il punto di vista ecc. Quindi da questa descrizione, anche molto complessa, il Modello AI provvede a generare l’immagine.
A questo punto, qual è il nuovo confine, visto che si sta parlando dei confini dell’arte?
Probabilmente andare oltre l’immaginazione umana, ma conto che non sia così!
Però l’AI è in grado di provocare lo stupore dello spettatore. Questo certamente è già possibile.
Vi faccio un esempio, presentandovi delle mie creazioni che ho portato a termine in un pomeriggio della settimana scorsa, mentre stavo leggendo un articolo sul Metaverso. Ecco questo è solo l’ultimo confine della creatività artistica, se così vogliamo chiamarla. Lascio a voi la riflessione.