Rivista Futuro

Futuro

Senza parole

di Aristide De Marchi

L’immigrato è sempre più tra di noi, chi lo vede come una minaccia alla propria tranquillità, chi invece come una risorsa per il nostro futuro. Nuove forme di convivenza si imporranno ed ognuno di noi deve fare i conti con i propri pre-concetti che, come zavorre, ci bloccano e limitano il nostro sguardo sul mondo. Ogni immigrato è una storia e più storie conosciamo più la nostra mente si può aprire all’Altro.
Vi racconto la storia di Fatima. Tutto ha inizio un giorno di fine aprile di tre anni fa quando dal Pronto Soccorso di Castelfranco Veneto giunge una richiesta urgente alla Caritas cittadina.
“Abbiamo qui una giovane donna africana, non parla una parola di italiano, è sprovvista di documenti ed è senza fissa dimora. Inoltre è in stato di gravidanza di poche settimane. Abbiamo interpellato i servizi sociali del comune ed hanno risposto che manderanno una assistente sociale tra una settimana come se noi potessimo permetterci di ricoverare per una settimana una persona in attesa della assistente sociale. Abbiamo sentito gli istituti religiosi che di solito accolgono donne in difficoltà ma ci hanno risposto che per evitare denunce non possono accogliere persone sprovviste di documenti”. Al telefono è il primario del pronto soccorso, chiude la comunicazione dicendo:”Se non so dove questa donna va a dormire questa notte, io non la dimetto” Incontro Fatima in pronto soccorso è seduta in un angolo dell’astanteria, raggomitolata in se stessa, come se non volesse occupare troppo spazio con il suo corpo. Con voce flebile parla un buon francese. In uno zainetto di 15 litri sono contente tutte le sue cose. Il mio pensiero
va al confronto tra noi che viviamo nell’opulenza e questa donna in fuga. Penso con imbarazzo allo spot pubblicitario sul cibo per gatti ascoltato poco prima. “Papi, miccia ha detto che le crocchette xyz le piacciono”. Con tutta evidenza viviamo in un paese, in una cultura, dove hanno più diritti di essere ascoltati cani e gatti che i “negri”.
Durante il breve colloquio Fatima comincia a raccontare la sua storia, della fuga dal suo paese in quanto perseguitata politica ma anche per fuggire da una insostenibile situazione coniugale. Con il coordinatore della Caritas cittadina, Silvano Sabbadin, si decide di offrirle ospitalità in un albergo della città, però essendo lei priva di documenti questa opzione viene scartata. Parecchie volte, durante il mio lavoro in psichiatria, con situazioni di donne sole o di adolescenti in crisi che necessitavano di ospitalità sono state le Discepole del Vangelo che hanno trovato la soluzione. Anche questa volta, dopo un primo tentennamento, hanno detto di si con l’accordo che la Caritas avrebbe collaborato nell’iter burocratico per ottenere i documenti necessari a Fatima per poter uscire dalla clandestinità. A tal fine si è resa necessaria una puntuale ricostruzione della sua storia da consegnare poi in questura. Il coinvolgimento di un cittadino del Togo, fratello di un clochard assistito dalla Caritas si è verificato molto utile. Durante l’incontro allargato, Adam, si rivolge a Fatima in lingua locale, dopo pochi minuti sbatte violentemente le palme delle mani sul tavolo ed esclama:”L’Africa rimarrà sempre l’Africa, non cambierà mai, quale democrazia! Potete fare uscire di qui questa donna ed io vi racconto tutta la sua storia, succede sempre così”. Ci racconta che è stata sposata ad un re. “Il Togo è pieno di re, dappertutto, ogni villaggio, ogni quartiere ha il suo re. E se questo re vede una ragazza che gli piace, va dal padre della ragazza e se la compera, se il padre non è d’accordo, se la porta via e nessuno protesta. Lei è stata venduta a 14 anni ed ha avuto due figli, frutto di violenza, una femmina ed un maschio”.
Dai colloqui risulta chiaro che per lei il motivo della fuga non era dovuto né alla fame, né alla ricerca del benessere economico dell’occidente. Come per tutti i disperati anche per lei era preferibile correre i rischi di un viaggio pieno di insidie e pericoli pur di uscire da una condizione di oppressione. Per lei l’Italia è la terra promessa.
Al terzo colloquio propongo il test di Koch che consiste nel chiedere di disegnare un albero su un foglio A4. Un semplice test carta-matita che ci permette di accedere a dei contenuti emotivi in modo più immediato rispetto al racconto verbale. Questo disegno ci mostra ciò che Fatima provava in quei giorni, senso di sradicamento, incertezza per il suo futuro, il disegno ci dice che si sentiva come un albero alla deriva.
Nel frattempo sono trascorsi tre mesi, le Discepole sono diventate la sua famiglia. Con il trascorrere del tempo sviluppa un senso di fiducia verso coloro che la stanno aiutando ed anche la comunicazione diventa più facile. In questo clima relazionale possiamo addentrarci nelle pieghe più dolorose della sua storia di donna fuggitiva. Per due volte aveva tentato di fuggire dal marito e per due volte è stata riportata a casa con la forza. Alle percosse seguivano riti di purificazione per far uscire dal suo corpo il djnn malvagio che, secondo la cultura locale, la possedeva. Racconta del viaggio nel deserto, lo stesso tragitto e le stesse scene raccontate dal film “Io capitano”. In Libia, anche lei ha subito minacce. Una notte una guardia l’ha prelevata dalla stanza dove erano rinchiuse le donne. Di fronte alla incombente violenza sessuale lei ha il coraggio di ripetere, di gridare in continuazione la formula “La ilaha illa Allah” (Non c’è altra divinità oltre Allah) una invocazione di richiesta di aiuto ad Allah. La sua reazione provoca rabbia nell’aggressore che la ferisce ad un braccio. E lei: ”Ti stati comportando come un cattivo musulmano, tu mi puoi uccidere ma io andrò in paradiso, tu invece andrai all’inferno”. Il suo coraggio paralizza l’aggressore che desiste dal suo intento e due giorni dopo decide di pagare per il suo riscatto. Ora se ne può andare libera. Dopo tre giorni costui la cerca per dirle che si sarebbe aspettato un grazie per averla liberata. La sua risposta è stata:” Non sei tu che mi hai liberato, è stato Allah che si è servito di te per liberare me”.
Questi fatti accadono all’inizio ottobre, le notizie dei naufragi e dei morti in mare arrivano puntuali in Libia, lei non sa cosa fare. Pensa di ritornare a casa, un sogno però le fa cambiare idea. Una notte sogna di essere in una barca e dalla barca si vede la costa, per lei la costa dell’Italia. Decide di partire. Al largo di Malta rimangono bloccati per avaria al motore. La guardia costiera maltese consegna loro un motore ed una cassa d’acqua. Arriva a Lampedusa il 7 novembre 2020, segue il trasferimento in un centro di accoglienza a Certaldo comune della Toscana di 15.000 abitanti che ha risposto all’appello del Governo per l’accoglienza con 60 posti, però grazie alla “grande disponibilità all’accoglienza di altri comuni italiani” i posti sono drammaticamente diventati 180! Qui a Certaldo conosce un connazionale che divieterà il padre del nascituro.
Lo svolgimento delle pratiche burocratiche procede. Ottiene i documenti ed il riconoscimento dello stato di fragilità essendo sola ed incinta. La prefettura riconosce la fondatezza della richiesta ed viene assegnata al Centro Accoglienza Straordinaria CAS di Padova, coordinato da Roberto Tuninetti.
Accompagno Fatima a Padova e durante il tragitto le faccio la classica domanda che si faceva alla donna incinta:” Preferisci che sia maschio o femmina?”
– “Va bene quel che arriva”
“Ma tu hai una preferenza”
“Si un garçon”
“Ed hai deciso il nome?”
“Si Ibrahim, nel corano è citato molte volte dal profeta,
– “Ma allora se è una femmina la chiami Sara”
Sorride.
L’appartamento è In zona Arcella ed è abitato da cinque donne africane, due hanno un figlio piccolo. Appena entrata, Fatima, è accolta come una sorella come se si fossero conosciute da sempre. Sono sorpreso da come si sviluppa la comunicazione tra di loro, lei viene come calamitata da loro nasce una gioiosa complicità. Insomma, un pezzo di Africa all’Arcella, con i suoi dialetti i suoi colori i suoi odori ed i suoi sapori!
Una di loro le chiede:” Qui est ce monsieur?” E lei:”C’est mon père d’Italie”.
Tutto procede per il meglio, giusto un anno dopo lo sbarco a Lampedusa il 14 novembre viene al mondo Amira, una splendida bimba. I miei contatti con Fatima, anche se saltuari, continuano. Due mesi dopo ho voluto riproporre il test di Koch. Le differenze rispetto al primo sono evidenti anche ad un profano di psicologia.
Nel frattempo il padre di Amira è stato inserito in un progetto di qualificazione professionale a Genova. Ha imparando a fare l’elettricista e sta cercando di trasferirsi in Veneto.
Nel mese di gennaio del 2023 durante un viaggio in Benin e Togo ho voluto passare per il villaggio di Fatima, Ketao, per conoscere sua madre. Il padre era deceduto un anno prima. I due figli, la figlia di 10 ed il figlio di 8 anni vivono con la nonna. Pur nella estrema povertà la madre mi ha accolto in modo dignitoso. In una scena dal sapore biblico, mi ha offerto dell’acqua e mi ha dato la sua benedizione. “Tu dirai a mia figli che ci hai visti, che stiamo tutti bene, che Dio ti riporti alla tua casa in buona salute, vai a custodire mia figlia come se tu fossi suo padre che viveva in quella stanza. Tu e Dio la custodite”.
Fatima ora vive in una cittadina del Veneto si è sposata con il padre di Amire, hanno fatto famiglia.
Nel novembre scorso Amira ha compiuto due anni, ad anche per il secondo compleanno Fatima mi chiede di accompagnarla dalle Discepole del Vangelo a Castelfranco Veneto, il suo senso di gratitudine nei loro confronti è grande. Al rientro a casa sua ho fatto la conoscenza del marito. Abbiamo parlato a lungo. Mi ha raccontato la sua storia. Ora è contento, perché abitano nell’appartamento che era del custode dell’azienda dove lavora. Ma fino a qualche mese fa era costretto ad alzarsi molto presto al mattino perché il tempo necessario per andare al lavoro era di due al mattino e due ore la sera.
Parla della moglie e della figlia, dei momenti difficili e si commuove, si copre gli occhi con le mani per nascondere le lacrime che dall’incrocio delle palpebre cominciano a scendere. E sussurra: “Voi avete fatto tanto per la mia famiglia, per mia moglie, per mia figlia, no, non si vedono cose come queste in giro……senza parole, non so come ringraziarvi…..senza parole”.