
Confini
Giochi (economici) senza frontiere
di Francesco Berton
Tra voglie di impero e di Tamisiana Repubblica di Bosgattia.
Dove c’è una cosa pubblica deve esserci anche un confine. Perché bisogna stabilire a chi compete difenderla e curarla, chi si occupa del bene comune. E se qualcosa non va si deve decidere: fin qui è colpa di qualcuno, oltre è di qualcun altro. Burocrazia e regole non possono esistere senza un confine, un limite che definisce la loro applicazione. Non servono barriere naturali, fiumi o monti, i confini si tracciano anche nell’acqua e nel deserto.
Il confine è una convenzione condivisa, è qualcosa che fai con “l’altro”, che deve riconosciuto e accettato da tutte le parti. Perché fino a qua è mio, al di là è tuo.
Se uno avanza, l’altro arretra. Quello dei confini è un gioco a somma zero.
Nel Seicento, all’epoca del mercantilismo, la cosa fondamentale era avere una bilancia dei pagamenti in attivo, arricchire il paese comprando materie prime a basso costo e vendendo prodotti al mondo. Anche questo era un gioco a somma zero. Se un paese vince, qualche altro paese deve per forza essere in passivo. Più tardi, Adam Smith si è cimentato nell’indagare sulla ricchezza delle nazioni e David Ricardo su quale fosse il modo migliore per impegnare ciascun paese in una produzione di beni che andasse bene per sé e per tutti gli altri. Una sorta di pianificazione del ruolo di ciascun paese nel mondo, pensata ben prima della globalizzazione come la conosciamo ora, dove la questione è ancora più amplificata.
La globalizzazione è una contrazione dello spazio e del tempo resa possibile dalla tecnologia, che consente a capitali e merci di ragionare senza confini. E la forza lavoro? Muovere le persone ha un impatto diverso. I soldi li capiscono tutti, le merci anche, ma le persone? Quelle hanno una loro storia, abitudini e tradizioni, potranno mai essere compatibili con la mia?
Molti parlano di identità. Quasi mai per unire, quasi sempre per dividere. Ma l’identità è un divenire. Pensarla cristallizzata è un’illusione, rivolta al passato è una finzione, pure un po’ truffaldina. In una società individualistica l’identità diviene un qualcosa da sbandierare se mi garantisce un privilegio, come una carta vantaggi. Diversamente, se diventa un’etichetta che mi penalizza, allora non vale più.
Il confine viene visto sempre come un limite che si oppone, ma per chi lo varca è spesso una risorsa, l’unica per lasciarsi davvero alle spalle un mondo avverso, per sopravvivere o per cercare una condizione migliore.
Il confine è una qualità che viene attribuita a qualcosa. A un territorio, a una capacità, alla percezione, alla possibilità. Per escludere il suo contrario, l’infinito. Per un’economia globalizzata, potenzialmente infinita, paesi con regole diverse significano opportunità per fare maggiori profitti o per pagare meno tasse, mentre per tutto quello che è stanziale significa essere in concorrenza con il resto del mondo. Sedi di imprese nate e cresciute grazie a un territorio e ai suoi abitanti abbandonano il nido per volare verso paesi dove il fisco è più benevolo. Se posso scegliere, scelgo dove costa mi costa meno. Il Nordest, cresciuto grazie alle esportazioni, abbandona un lavoro troppo costoso per andare a produrre in paesi dove i lavoratori non hanno pretese, e l’ambiente neppure.
Per contrastare i paradisi fiscali e la gara tra paesi a chi fa pagare meno tasse, come si sta cercando di fare con la global tax, bisogna mettere d’accordo tutti. Tra chi pensa per sé e chi ha a cuore l’interesse collettivo non c’è partita. Il dumping fiscale, nel suo complesso, è un gioco a somma negativa. Perché se mi sposto solo per pagare meno, la collettività perde sempre.
Ci sono problemi globali che non hanno confini. L’aria non ha confini e il suo inquinamento neppure. Per risolvere problemi senza confini, i confini sono un ostacolo. Perché è difficile far capire a chi non vuole farlo che il problema è di tutti e per trovare una soluzione bisogna mettere d’accordo tanti diversi interessi.
Il confine ideale è un’isola. Anche le utopie sociali sono spesso ambientate in un’isola, come la Città del Sole di Tommaso Campanella. Nei tempi difficili, tempi di paure, i confini diventano il centro dell’attenzione. L’attenzione è sempre su chi sta al di là del confine. C’è chi si vuole espandere e c’è chi si vuole chiudere, isolare, essere indipendenti, seguendo un sempre presente e diffuso desiderio di fondare una nuova Tamisiana Repubblica di Bosgattia, confidando che piccolo è bello sempre, e più è piccolo più è bello. Per chi volesse guardare bene le piccole realtà geografiche molto ricche, vedrebbe che brillano poco di luce propria, non sono economicamente indipendenti ma traggono in modo parassitario ciò che le avvantaggia dal mondo globalizzato, favorite dal fatto di non avere un vero popolo di cui occuparsi.
L’economia produce valore ma la sua contabilità, di fondo, è un gioco a somma zero. Per uno che spende uno incassa, per uno che guadagna un altro perde. Nella logica della partita doppia, ad ogni movimento ne corrisponde uno uguale e contrario. Questo crea una forma mentis abituata a vedere due fenomeni opposti entrambi veri, utile vaccino contro i pifferai magici che professano verità come uniche. Quando si sentono promesse di abbassare le tasse inevitabilmente il pensiero va all’altra faccia della medaglia: in cambio di meno che cosa? Meno sanità? Meno istruzione? Meno welfare? Meno strade? Meno sicurezza? Soltanto l’ottimismo e la fiducia creano valore in economia, tutto il resto sposta una ricchezza che già c’è.
Una società con una forte e predominante classe media non ha confini sociali, perché la classe media fa da collante sociale che tiene tutti assieme. L’ascensore verso l’alto funziona e tutto è tarato su una posizione mediana, accessibile. Oggi non è più così. C’è un confine che sta sempre più emergendo nella società quanto più scompare la classe media, economicamente polarizzata dalla disuguaglianza crescente. Esistono sempre più servizi per chi è ricco, e può pagare, e servizi per tutti gli altri, sempre più scadenti. Non esiste più un mercato per la classe media, ma solo beni di lusso o ultra popolari, e così via. Le vite dei ricchi e quelle dei poveri si incontreranno sempre meno. Indubbiamente uno scenario fallimentare per il capitalismo, che fa ipotizzare un suo esito finale non verso il socialismo, come prevedeva Marx, ma verso un ritorno allo stato precedente, il feudalesimo.