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David Lynch – I confini della mente

di Alessandro Civiero

David Keith Lynch, classe 1946, è un regista, uno sceneggiatore, un attore, un produttore cinematografico, un musicista, un pittore statunitense. Però tutti gli appellativi appena citati non riescono affatto a delineare i confini poliedrici di questo artista.

Esistono infatti molti tipi di confini: geografici e politici; esistono confini naturali e filosofici, tutti pressoché inventati dall’uomo per dare una parvenza di razionalità alle cose, al mondo e talvolta anche ai gruppi umani ed etici. I confini spesso sono fatti per dividere ed imperare, altre volte per settorializzare e semplificare; alcune volte certi confini sono posti solo per essere valicati. Esistono confini, poi, che sono invisibili e che riguardano una sfera diversa dalla percezione concreta delle cose. Sono i confini metafisici, i confini della mente umana, dove si aprono mondi inesplorati e paesaggi che hanno la forma e la profondità insondabile dell’orizzonte degli eventi. Tale è la linea oltre la quale si aprono i buchi neri e i concetti della fisica non hanno più senso. David Lynch questo confine lo ha superato più volte.

Indubbiamente ciò che si può fare, contemplando l’arte di David Lynch, è cercare di capire la sua opera cinematografica. Certo, possiamo solo tentare di capirla, perché Lynch ha volutamente esplorato terre sconosciute e scoperto punti di vista alternativi di guardare il mondo e l’uomo, che gli sono valsi molto spesso incomprensione. Anche se la sua opera è stata perlopiù elogiata dalla critica, non ha mai riscosso molto successo commerciale. In effetti, il cinema di Lynch è tutt’altro che popolare, e ciò costituisce già una sorta di confine per oltrepassare il quale abbiamo bisogno di un passaporto speciale. Per entrare nel mondo di David Lynch bisogna cancellare il concetto di banalità, di ovvietà, di razionalismo ed accettare di vagare in una landa sconosciuta, dove siamo tutti mentalmente vulnerabili e pronti a correre il rischio di perderci nei meandri della psiche.

Cineasta sperimentale, non tanto per la tecnica filmica, quanto per le scelte narrative fuori da ogni confine convenzionale, Lynch non è mai sceso a compromessi con il sentire comune e forse nemmeno con se stesso, ma ha sempre cercato di riportare nel linguaggio cinematografico le sue ossessioni di pittore ispirato soprattutto dall’artista irlandese Francis Bacon. L’inquietudine, l’oscurità, la crudezza dell’immagine, la ricerca dell’orrido e dell’espressionismo declinato in un manierismo moderno sono tutte le protagoniste del suo linguaggio. Sin dai primi cortometraggi sperimentali degli anni Settanta, la poetica di Lynch si è subito manifestata e certo non per accattivarsi il favore della massa. Con questi tentativi, il pittore Lynch ha scoperto che l’immagine in movimento e l’inserimento del sonoro, con musiche composte da egli stesso, ovvero musiche note ma apparentemente in contrasto con il messaggio visivo, creavano suggestioni forti e stati d’irrequietezza che portavano lo spettatore oltre un confine dove le certezze sparivano e strani livelli di cognizione e consapevolezza si sostituivano alla percezione comune. Da qui nasce il cineasta David Lynch. Il suo cinema chiede appunto di accettare la trasposizione della visione su piani diversi di percezione, e superare i confini del concreto per aprire il sipario rosso della metafisica.

Il sipario rosso è un’immagine simbolica costante che compare nel cinema di Lynch e credo sia il suo modo di concretizzare i punti di passaggio tra il reale e il surreale, tra il fisico ed il metafisico, tra il corpo e la mente. Il sipario rosso è il confine, spesso a più strati e livelli, dove i personaggi passano da un piano di realtà ad un altro, da una dimensione spazio temporale ad un’altra del tutto diversa o distorta; da un livello di comprensione ad uno successivo, spesso nient’affatto migliore.

Per David Lynch, la notorietà presso il grande pubblico è arrivata quando egli ha accettato di abbandonare il grande schermo per cimentarsi con la TV. Ovviamente anche questo è un confine che il regista ha valicato a modo suo. Il risultato, sulla bocca di tutti all’inizio degli anni Novanta, è stato “I segreti di Twin Peaks” (chi non ha mai pronunciato o sentito dire, almeno una volta, “chi ha ucciso Laura Palmer?”). Ecco, il delitto di provincia era solo un pretesto, tanto che nel plot originale, agli ideatori della fiction e a David Lynch in testa, non era nemmeno passato per la mente di arrivare ad una soluzione del “giallo”, come in tutte le rassicuranti serie televisive del mondo. In “Twin Peaks” nulla era rassicurante, nulla scontato, “nulla è quello che sembra” (come recitava il tag promozionale). Ed era vero, completamente spiazzante e quasi inaccettabile. Tanto che, in corso d’opera, la produzione e il regista sono stati costretti a trovare un colpevole per l’orrendo delitto scoperto nella prima scena della fiction, ma che tendeva a passare in secondo piano, col susseguirsi intricato delle vicende, nello sviluppo narrativo originario. Le vicende dello sceneggiato, come sempre nell’opera di Lynch, sfociano nel metafisico, nell’assurdo, nell’irragionevole. I protagonisti si manifestano come personaggi del tutto improbabili, la provincia americana più sperduta si rivela una foresta di cupissime ombre e pochissime luci. I confini dello Stato sono il passaggio dal bene al male, dalla luce alle tenebre, dall’innocenza alla perdizione, dal reale al fantastico, dall’umano al disumano, dalla ragione alla follia.

Spesso è questo il luogo dove ci accompagna la visione del regista Lynch. Un mondo fatto di assurdità e follia, dove conigli antropomorfi sono protagonisti di sitcom inquietanti, donne pazze parlano con i ceppi del caminetto, malefici nani aprono sipari fantasmagorici in mezzo a foreste oscure. Spiriti inquieti si rivelano attraverso specchi, miti vicine di casa prevedono orribili atrocità che si avverano, uomini passano da una dimensione all’altra attraverso la presa elettrica nella stanza di un motel. Queste sono solo alcune delle trovate narrative e simboliche che compaiono nei film di David Lynch e che chiedono allo spettatore il passaggio attraverso una frontiera: o spaventano, o affascinano; mai lasciano indifferenti.

In conclusione, citando alcuni lavori del regista americano, oltre alla sua opera prima “Eraserhead”, vanno ricordati: “Elephant Man”, che forse è il suo capolavoro e parla dell’accettazione del diverso. “Velluto Blu”, una cupa storia di sesso, violenza, corruzione e perversione. “Cuore Selvaggio”, una torbida storia d’amore a carattere shakespeariano ma con risvolti bizzarri. “Strade Perdute”, “Mulholland Drive” e “Inland Empire – l’impero della mente”. In questi tre film la poetica di Lynch, con la sua ossessione per l’assurdo e l’inquietante, raggiunge i massimi livelli. Poi il già citato “I segreti di Twin Peaks”, serie poliziesca completamente sui generis, come sopra spiegato, che avrà un prequel in “Fuoco Cammina con Me” e un sequel, la fiction “Twin Peaks”, del 2017, dove ricompaiono, dopo venticinque anni, quasi tutti gli attori e i personaggi della serie del 1992, ma le stranezze raggiungeranno livelli ancora più alti; dove i “buoni” diventano “cattivi”, i “cattivi” “buoni” e tutti gli stereotipi della narrativa normalmente accettata vengono completamente stravolti, solcando gli imponderabili confini della mente dello straordinario maestro del cinema contemporaneo di nome David Lynch.